L'Inchiostro del Volere
Il freddo era una costante compagna in quella cella, una presenza che s’insinuava fin nelle ossa, indipendentemente dalla stagione. Ma Elias aveva imparato a conviverci, a fonderlo con il respiro, a trasformarlo in un sottofondo quasi impercettibile per le sinfonie silenziose che dipingeva sulle pareti. Non colori, certo, perché il mondo esterno era un lusso negato, un eco sbiadito nella sua memoria. Ma l’inchiostro, ah, quello sì. L’inchiostro del volere, ricavato da un pezzo di carboncino rubato, da un goccio di caffè bruciato, e talvolta, nei momenti di disperazione più acuta o di ispirazione più bruciante, dal suo stesso sangue, diluito con l’acqua della brocca per creare sfumature che nessun pittore avrebbe mai compreso. Lui dipingeva sogni sulle pareti della prigione.
E i suoi sogni erano un universo. Non le fughe rocambolesche che altri prigionieri potevano fantasticare, né le vendette sanguinolente che echeggiavano nei corridoi. Elias dipingeva cieli immensi, così vasti da togliere il fiato, con nuvole che sembravano cotone sfilacciato o monti imponenti. Dipinse campi di grano, dove il vento soffiava una sinfonia antica, e l’oro maturo si inchinava in un’eterna danza. Dipinse il mare, un’infinità cangiante di blu e verde, con la schiuma che baciava la riva come un amante perduto. E, in ogni scenario, quasi come un sigillo invisibile, compariva una figura. La donna.
Quella notte, però, il sogno era diverso. Non era un’ombra eterea, un contorno sfumato come le precedenti. Era viva. Ogni linea, ogni sfumatura di nero e grigio, vibrava di un’energia propria. I suoi capelli, dipinti con un nero così profondo da sembrare assorbire la luce stessa, fluttuavano come se accarezzati da una brezza inesistente. I suoi occhi, due piccoli abissi di nulla eppure pieni di un’antica saggezza, sembravano seguirlo. Era lei, la donna dei suoi sogni più reconditi, quella che aveva immaginato in ogni dettaglio, dal leggero inarcarsi delle sopracciglia alla curva delicata del suo labbro inferiore. La pelle, un non-colore quasi opalescente sul muro scabro, sembrava irradiare un calore inatteso, un invito silenzioso.
Elias la fissava, immobile sulla sua branda spartana. Il cuore gli batteva contro le costole come un uccello impazzito, e un sudore freddo gli imperlava la fronte. Non era più solo arte. Non era più un semplice sfogo della sua mente tormentata. Era follia? La solitudine estrema lo aveva spinto oltre il confine della ragione? O era, per la prima volta in anni, la realtà più acuta e innegabile? Il ronzio monotono delle luci al neon, un suono che normalmente lo accompagnava nel sonno e nella veglia, si fece più lontano, quasi indistinto. Il mondo si stava restringendo a lui e a quella figura sul muro.
La mano della donna, dipinta con una delicatezza che sfidava la ruvidità della parete, si mosse. Non fu uno scatto improvviso, ma un lento, deliberato dispiegarsi delle dita, un gesto che conteneva l’infinito della pazienza. Poi, con una lentezza quasi straziante, le dita si allungarono, staccandosi dalla superficie, proiettandosi nello spazio della cella, come rami di un salice che cercano l’acqua. Elias sentì un brivido percorrerlo, ma non era terrore puro. Era qualcosa di più complesso, un misto di paura ancestrale e di una speranza così accecante da essere quasi dolorosa.
Un sussurro. Non con la voce, perché labbra dipinte non potevano emettere suono. Ma era un sussurro che sentì nella sua mente, che risuonava nelle pareti, che vibrava nell'aria viziata e impregnata di disperazione. Era il suono di un milione di desideri inespressi, di preghiere dimenticate, di libertà negate che si condensavano in una singola, inconfondibile intenzione. "Vieni. È tempo."
Elias non si mosse volontariamente. Fu come se una forza invisibile, o piuttosto, una forza magnetica scaturita da quella mano tesa, lo attirasse. I suoi muscoli, atrofizzati da anni di immobilità forzata, si mossero con una fluidità inaspettata. Si alzò dalla branda, i piedi nudi che toccavano il freddo cemento, e si avvicinò alla parete, un passo dopo l'altro, come in trance. Ogni passo lo avvicinava a quel confine tra il tangibile e l'impossibile, tra la sua prigione e la promessa di qualcosa di sconosciuto.
La sua mano si sollevò, tremante. Le dita sfiorarono quelle della donna. Non fredde, non di gesso o carbone. Erano tiepide, morbide, con una consistenza che non poteva essere solo un sogno. E nell'istante in cui le loro pelli si toccarono, la parete non si ruppe, non crollò. Semplicemente, si dissolse. Non in polvere, non in macerie. Si trasformò in un vortice scintillante, un caleidoscopio di luci e ombre, un tunnel che sembrava fatto di inchiostro liquido e stelle frantumate. Era un passaggio verso l'altrove, verso il non-luogo che era sempre esistito, in attesa, al di là della sua visione limitata.
Il risucchio fu delicato all'inizio, poi sempre più potente, ma non violento. Elias non sentì dolore, solo una sensazione di elongazione, come se il suo corpo fosse fatto di gomma, poi un'immersione completa in quel turbine. La luce si fece accecante, poi si attenuò, lasciando spazio a un'oscurità più profonda di qualsiasi notte avesse mai conosciuto. Non l'oscurità claustrofobica della cella, ma una oscurità vasta, piena di un milione di stelle che brillavano con una purezza quasi divina.
L'aria era diversa. Non il fetore di umido, di sudore e di disinfettante. Era fresca, pungente, con il profumo della terra bagnata dopo una pioggia estiva e un aroma dolce, di fiori sconosciuti. I suoi piedi non poggiavano sul cemento, ma su qualcosa di morbido, elastico, che cedeva leggermente sotto il suo peso. Il fruscio delle foglie, il canto lontano di un gufo, il grillo solitario che stridiva nel silenzio. Era fuori. Davvero fuori. Non un cortile di cemento, non un muro di cinta. Era in una foresta.
E lei era lì. Accanto a lui. Non più un'immagine bidimensionale, ma una presenza tangibile, eterea eppure solida. La sua pelle aveva il colore della luna, i suoi capelli, un velo nero che le scendeva sulle spalle, sembravano assorbire la luce stellare. I suoi occhi, ora di un blu profondo come un lago alpino, riflettevano le stelle, come se fossero finestre su un universo interiore. La sua figura era snella, elegante, vestita di tessuti che sembravano fatti di nebbia e chiarore di luna.
"Dove siamo?" la sua voce era un raschio, quasi inutilizzata da anni di silenzio forzato.
Lei si voltò, e un sorriso si disegnò sul suo volto, un sorriso che non era di umana gioia, ma di una soddisfazione antica, quasi mistica. "Nel tuo sogno, Elias," rispose, la sua voce, un sussurro melodioso, come il tintinnio di campanelle di cristallo, "il tuo sogno che ha deciso di fuggire con te." Le sue dita, che ancora tenevano la sua mano, si strinsero leggermente. "E ora, è tempo di dipingere un nuovo inizio." L'eco delle sue parole si disperse tra gli alberi, lasciando Elias solo con l'immensità di quel momento, il battito selvaggio del suo cuore e la consapevolezza inebriante che la sua vita, per la prima volta, non era più un confine. Era un orizzonte.