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Thriller

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28/05/2025

L'Odore di Ghiaccio e Foglie Bagnate

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no0jiko

L'Odore di Ghiaccio e Foglie Bagnate

La città di Echo Falls non si trovava su nessuna mappa turistica di rilievo, né figurava negli annali delle grandi imprese umane. Era un luogo dimenticato dal progresso, annidato con un'ostinazione quasi testarda in una conca tra colline boscose e impervie. Qui, il tempo non era scandito dai frenetici ticchettii degli orologi atomici o dalle notifiche vibranti degli smartphone – oggetti, questi ultimi, che a Echo Falls erano considerati quasi reperti di un'epoca aliena. I pochi dispositivi elettronici esistenti erano reliquie di un passato più moderno, spesso malfunzionanti o privi di segnale, confinati nelle mani di qualche raro visitatore smarrito. La vita scorreva al ritmo antico delle stagioni: l'aria d'estate era una coperta umida e appiccicosa, l'inverno un artiglio ghiacciato che si aggrappava alle pietre delle case come un'edera adamantina, e le giornate erano misurate dall'ascesa e dal declino del sole nel cielo, o dal lento ondeggiare dei pendoli di vecchie orologi a cucù, molti dei quali tacevano da decenni. Per i bambini di Echo Falls, questa assenza di modernità non era affatto una privazione; era, piuttosto, una magnifica e sconfinata liberazione. Il loro regno era il mondo oltre le recinzioni sgangherate delle ultime case: la foresta fitta e silenziosa, un labirinto di alberi secolari e sentieri appena battuti; il ruscello che danzava tra le rocce muschiose come un nastro d'argento liquido, sussurrando segreti antichi; e il vecchio mulino abbandonato, il cui scheletro di legno pareva voler narrare storie millenarie, portate dal vento che sibilava tra le assi marce. Ed era proprio in questo regno immutato, tra le ombre danzanti degli alberi e il pungente odore di ghiaccio e foglie bagnate che preannunciava un inverno precoce e inaspettato, che le cose iniziarono a deviare, impercettibilmente all'inizio, poi con una frequenza allarmante. Liam fu il primo a percepire la fessura nel tessuto della realtà. Aveva undici anni, i capelli castani sempre in lotta con il pettine e gli occhi di un azzurro intenso che perlustravano ogni angolo del mondo con la fame insaziabile di un piccolo esploratore. Era un pomeriggio di metà ottobre, l'aria frizzante gli pizzicava le narici mentre si chinava sul bordo del ruscello. Era intento nella sua ricerca più sacra: trovare il sassolino piatto perfetto per i rimbalzi sull'acqua, un'arte che aveva perfezionato con una devozione quasi monastica. Trovò la pietra perfetta: liscia, quasi perfettamente rotonda, con una vena insolitamente rossa che la attraversava come una cicatrice ancestrale. Era la sua scoperta del giorno, un piccolo trofeo della natura. Con un sorriso soddisfatto, la lanciò. La pietra, però, non rimbalzò. Non affondò nemmeno, come avrebbe dovuto fare qualsiasi sasso secondo le leggi inoppugnabili della fisica. Semplicemente… scomparve. Non ci fu alcuno splash, nessuna minima increspatura sull'acqua a testimoniare il suo impatto. Era lì, un istante prima, solida e tangibile, e poi non c'era più. Cancellata. Liam si strofinò gli occhi incredulo, come se volesse rimuovere una patina invisibile che alterava la sua percezione. Si sporse ancora di più, le mani infilate nelle tasche dei pantaloncini, lo sguardo che scandagliava il punto esatto dove la pietra era dovuta cadere. Nulla. Era sparita, come se fosse stata risucchiata da un buco invisibile nell'aria, un frammento di realtà rimosso con chirurgica precisione. Un freddo inspiegabile gli strinse lo stomaco, una sensazione che non aveva nulla a che fare con la temperatura esterna. Era il freddo di ciò che non avrebbe dovuto accadere. Tornato a casa, provò a raccontare l'accaduto a sua madre, ma la sua voce era impastata dalla confusione e dalla paura. Sua madre, indaffarata a mescolare una zuppa fumante sul fornello a legna, liquidò la faccenda con la benevola indulgenza riservata alle invenzioni della fervida immaginazione infantile. "Sarà affondata, caro," disse con un sorriso distratto, gli occhi rivolti verso la pentola. "O l'hai solo lanciata troppo lontano, e l'acqua l'ha portata via." Ma Liam sapeva. Sapeva, con una certezza che gli bruciava dentro, che non era andata così. Non poteva essere. La sparizione era stata troppo netta, troppo innaturale. Il giorno dopo, la fessura si allargò, inghiottendo un'altra piccola tessera del loro mondo. Fu il turno di Maya, la mente analitica del gruppo, anche se aveva solo dieci anni. I suoi occhiali, un po' troppo grandi per il suo viso minuto e incorniciato da una cascata di riccioli color rame, le scivolavano spesso sul naso mentre si immergeva nei suoi amati libri, spesso prestiti polverosi dalla piccola biblioteca comunale. Quel pomeriggio era assorta nel suo quaderno da disegno, intenta a catturare la luce dorata del pomeriggio che filtrava con pigrizia tra le foglie di un vecchio acero nel cortile di casa sua. Aveva posato la sua matita preferita, una con la gomma a forma di piccola civetta, accanto al foglio intonso. Si alzò per prendere un bicchiere d'acqua dalla fontana in cucina. Il tragitto durò pochi secondi. Quando tornò, la matita era ancora lì. Ma non era la stessa. La gomma a forma di civetta, il suo tratto distintivo, era sparita, sostituita da una piccola piramide di cristallo traslucido, che luccicava di una luce interna, irreale. E il legno della matita non era più legno, ma qualcosa che somigliava a vetro levigato, freddo e liscio al tatto, con venature sottili che si muovevano leggermente, quasi respirassero. Eppure era la sua matita. Lo sapeva. E non era successo niente; nessuno l'aveva toccata, non c'erano finestre aperte, nessun animale domestico in giro. La trasformazione era avvenuta in un istante, nel vuoto della sua assenza, lasciando dietro di sé un residuo di incredulità e un sottile, quasi impercettibile ronzio nell'aria, come quello di un alveare nascosto. La settimana successiva, gli episodi si moltiplicarono con una frequenza disarmante, piccoli ma significativi, sempre inspiegabili. La bicicletta arrugginita di Sam, lasciata sul portico di casa sua, si ritrovava con le ruote al contrario, i raggi che ora sembravano fatti di un metallo diverso, che rifletteva la luce del sole in modo innaturale, quasi fluorescente, bruciando gli occhi se li si fissava troppo a lungo. Le biglie di Chloe, il suo tesoro più grande, gelosamente custodite in un sacchetto di velluto, si trasformarono in sfere di resina ambrata, e al loro interno, intrappolati in un'eterna immobilità, c'erano minuscoli insetti sconosciuti, con più zampe e ali di quelle che un insetto comune avrebbe dovuto avere, dalle forme grottesche e perturbanti. La campanella della scuola, che da sempre aveva un suono limpido e stridulo, un richiamo inconfondibile all'ordine e alla routine, iniziò a produrre una melodia distorta, come se qualcuno stesse suonando una cetra sott'acqua, le note che si propagavano dense e incomprensibili, distorcendo l'aria stessa. Questi eventi non erano solo strani; erano, in un certo senso, dei non-eventi, assenze di spiegazione che rendevano tutto più inquietante. Non c'era logica, né causa-effetto. Gli adulti, immersi nelle loro routine monotone e nelle preoccupazioni quotidiane – il raccolto, la riparazione del tetto, le chiacchiere al mercato – non notavano questi piccoli, significativi mutamenti. O li liquidavano con nonchalance, attribuendoli a piccole disattenzioni, all'usura del tempo, o semplicemente alla ruggine che si accumulava inevitabilmente sulle cose vecchie in un luogo come Echo Falls. Ma i bambini, loro vedevano. Loro sentivano. Loro percepivano un mutamento, un "sussurro" quasi impercettibile che sembrava provenire dalle crepe invisibili che stavano apparendo nella realtà stessa di Echo Falls. Era una vibrazione, un leggero ronzio costante nelle loro orecchie, un sapore metallico e sconosciuto sulla lingua, una sensazione di leggera vertigine quando il vento soffiava in un certo modo. Una sera, il cielo sopra Echo Falls era tinto di viola e arancione, e il freddo si stava insinuando rapidamente. Seduti in cerchio attorno a un fuoco da campo improvvisato nel cuore del bosco – un rito che mantenevano sacro da quando avevano imparato a tenere una candela accesa senza incendiare la tenda – Liam, Maya, Sam e Chloe si scambiarono sguardi carichi di un'intesa profonda e silenziosa. Non c'era bisogno di parole. Ognuno di loro aveva un proprio racconto, la propria piccola anomalia inspiegabile che si portava dentro come un peso segreto. Il fuoco scoppiettava con un crepitio rassicurante, e le ombre degli alberi danzavano attorno a loro, ingigantendosi e deformandosi, quasi fossero creature animate. "La mia pietra," mormorò Liam, rompendo il silenzio che si era fatto troppo denso. La sua voce era un sussurro, carica di un'incredulità ancora fresca. "È sparita. Non affondata, non portata via dalla corrente. Semplicemente... non c'era più. Come se non fosse mai esistita." Maya strinse tra le mani la sua matita di "vetro", i suoi occhi dietro le lenti che riflettevano le fiamme. "E la mia matita. Non è più la mia matita. Ma lo è. È come se la forma fosse la stessa, ma la materia... è diversa. È come se l'avessero... scambiata, ma non l'hanno fatto." La sua voce era perplessa, quasi spaventata dalla logica contorta della sua stessa affermazione. Sam toccò il suo ginocchio dolorante, una cicatrice fresca che gli ricordava un inciampo causato da una radice che, per un istante fugace, sembrava essere fatta di fumo denso, impossibile da afferrare o da superare. "La mia bici... i raggi sembravano vivere di luce propria, pulsando, come se respirassero. E non erano di metallo. Non so cosa fossero." Chloe tirò fuori dalla tasca una delle sue biglie ambrate, la tenne contro la luce tremolante del fuoco. Dentro, una minuscola creatura con più zampe e antenne di quelle che un insetto dovrebbe avere, sembrava galleggiare in un'eternità immobile, le sue forme aliene quasi visibili nella luce rossastra. "E queste... non erano così," disse, la sua voce appena un soffio. "Erano di vetro, trasparenti. Non c'era niente dentro. Ora... ora sento che mi guardano." Un brivido freddo, più intenso del vento autunnale che sibilava tra le foglie secche, corse lungo la schiena di tutti e quattro. Era una sensazione di gelo che non aveva nulla a che fare con la temperatura esterna; era un freddo diverso, un freddo che proveniva da dentro, dalle ossa, un odore di qualcosa che non avrebbe dovuto essere lì. Si mischiava all'odore pungente di ghiaccio e foglie bagnate, ma era qualcosa di più, un'essenza indescrivibile, qualcosa che sapeva di metallo rovente e di vuoto. Un odore di qualcosa che cambiava. Sapevano, senza averlo mai sentito prima, senza che nessuno glielo avesse mai insegnato, che era solo l'inizio. E che, per qualche ragione arcana, solo loro sembravano rendersene conto. Gli adulti non vedevano, non sentivano. Erano ciechi e sordi a questa lenta, inquietante alterazione del mondo. Il peso di questa consapevolezza, così grande e sproporzionata per le loro giovani spalle, era opprimente. Ma c'era anche un che di eccitante, una scintilla di avventura in questo mistero che si stava svelando solo a loro. Erano soli, ma insieme, di fronte a un mondo che si stava lentamente, inesorabilmente, disfacendo ai loro piedi.