classificata lunga

Fantascienza

Thriller

Horror

28/05/2025

Il Richiamo della Stella Morta

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penShades

La Nascita del Richiamo

Il segnale proveniva da una stella morta da milioni d’anni, eppure chiamava per nome uno solo di noi. Non era un’eco, né una risonanza spettrale di eventi accaduti in un passato ormai geologicamente estinto. Era un sussurro, un’invocazione singola, codificata in un modo che la nostra più avanzata strumentazione faticava a decifrare. Il Dr. Elias Vance, un uomo la cui mente rasentava il genio e la follia in egual misura, fu il primo a rilevarlo. Lavoravamo nell’Osservatorio di Arkham, un luogo che, nonostante la sua posizione remota, aveva una storia inquietante di scoperte che sfidavano la ragione. Elias era ossessionato dalle anomalie cosmiche. Per anni, aveva sostenuto l'esistenza di "cicatrici" nel tessuto spaziotemporale, residui di eventi così catastrofici da lasciare impronte oltre la comprensione umana. Molti lo consideravano un eccentrico, se non un vero e proprio folle. Fino a quel giorno. La sua scoperta fu accidentale. Stava calibra do il nuovo interferometro gravitazionale a onde sub-quantiche, un giocattolo costoso e ancora in fase sperimentale, quando un picco anomalo si manifestò sui monitor. Un picco che, secondo i suoi calcoli, non avrebbe dovuto esistere. La fonte era NGC 6302, nota anche come la Nebulosa Farfalla, o per noi, semplicemente "la stella morta". Un residuo di supernova, un cadavere celeste in lenta decomposizione. Eppure, da quel guscio di gas e polvere stellare, qualcosa pulsava. All'inizio, pensammo a un errore strumentale, a una distorsione atmosferica, persino a uno scherzo di qualche stagista annoiato. Ma Elias era irremovibile. Passò giorni, poi settimane, a filtrare il rumore cosmico, a raffinare i dati, finché non emerse una sequenza. Una sequenza che non aveva precedenti nei nostri archivi. Non era un segnale radio, né una variazione di flusso di neutrini. Era qualcosa di più sottile, di più... primordiale. Una modulazione delle onde gravitazionali stesse, come se lo spazio-tempo venisse pizzicato, suonato, in un modo che generava un suono, una vibrazione specifica. Fu durante una delle sue notti insonni, con gli occhi iniettati di sangue e la barba incolta, che Elias fece la scoperta più perturbante. Aveva programmato un algoritmo di analisi delle frequenze per cercare schemi riconoscibili in ogni lingua terrestre conosciuta, antica o moderna. Aveva incluso anche linguaggi matematici complessi, sequenze di Fibonacci, numeri primi, tutto ciò che potesse rappresentare una forma di intelligenza. Ma non si aspettava quello che trovò. Una delle sequenze, riprodotta attraverso un sintetizzatore audio modificato per tradurre le vibrazioni gravitazionali in onde sonore udibili, risuonò nella sala di controllo. Era un suono profondo, gutturale, quasi un canto lamentoso. E poi, inframezzato da quel lamento ultraterreno, una serie di fonemi. All’inizio, pensavamo fosse rumore bianco. Ma Elias, con un balzo, si avvicinò ai monitor, i suoi occhi fissi sulla trascrizione automatica che il sistema aveva generato. “Non è possibile,” mormorò, la voce roca per la stanchezza e lo stupore. “Non è possibile…” Mi avvicinai anch'io, incuriosito, un po' scettico. Sullo schermo, una serie di simboli sconosciuti si alternava a parole che, pur non formando una frase compiuta, erano sinistramente familiari. Erano i fonemi della lingua perduta di R’lyeh, un idioma che, secondo la mitologia lovecraftiana, era parlato da entità cosmiche antiche e maligne. Li avevo studiati per curiosità accademica, una sorta di bizzarro hobby per archeologi del soprannaturale. Ma vederli lì, generati da un segnale proveniente da una stella morta, era agghiacciante. "Elias," dissi, la mia voce un sussurro. "Cos'è questo?" Lui non mi rispose. I suoi occhi erano fissi sullo schermo, le labbra che si muovevano impercettibilmente. Sembrava che stesse leggendo, o forse, recitando. La sua mano tremava leggermente mentre indicava un punto sullo schermo. "È... è il mio nome, Aris. È il mio nome." Ero sbalordito. Sul monitor, un blocco di testo era stato evidenziato dal sistema. Sembrava una serie casuale di lettere, ma l'algoritmo di Elias, basato su una complessa analisi fonetica e morfologica interlinguistica, aveva identificato una corrispondenza. E la corrispondenza era inquietante. La sequenza di suoni tradotta era: "El-li-as... Van-ce..." Sentii un brivido freddo percorrerli la schiena. Non era un caso. Non poteva esserlo. Il segnale non era un rumore casuale dell'universo. Era un messaggio. Un messaggio diretto, personale. E chiamava Elias Vance per nome. Un uomo, fra miliardi, sul nostro piccolo, insignificante pianeta. Perché lui? E cosa voleva? Il suono del segnale continuava a pulsare, ora con una cadenza più marcata, più insistente. Sembrava quasi che la stella morta si stesse rianimando, risvegliando per chiamare a sé un'anima specifica. Elias si sedette, le mani che si stringevano sulla scrivania, il volto pallido. Non era più il brillante, eccentrico scienziato che conoscevo. C'era un'ombra nei suoi occhi, un'ombra di terrore e, stranamente, di attrazione. Come se fosse stato riconosciuto da qualcosa di incomprensibilmente vasto e antico. Le notti successive furono un calvario. Elias passava ore a studiare il segnale, a cercare di decifrare ogni singola fluttuazione. Si rifiutava di dormire, di mangiare. Il suo laboratorio era diventato un santuario profano, illuminato solo dal bagliore azzurro dei monitor e dal debole, sinistro ronzio del segnale. Cercai di aiutarlo, di analizzare i dati con lui, ma era come se una barriera invisibile ci separasse. Lui percepiva qualcosa che io non potevo. Una sera, lo trovai accovacciato davanti a un grande schermo che mostrava una complessa rappresentazione grafica del segnale. Sembrava un intricato diagramma frattale, in continua evoluzione, con spirali e motivi che sfidavano ogni logica geometrica conosciuta. "Si sta... evolvendo," sussurrò, la voce appena udibile. "Non è statico. Si sta adattando. Impara." Il concetto era terrificante. Un segnale da una stella morta, che si evolveva, che imparava. Significava che non era un semplice messaggio registrato. Era una forma di comunicazione, un dialogo unidirezionale, dove l'altra parte sembrava comprendere la nostra esistenza, forse persino la nostra lingua. O meglio, la lingua di Elias. “Cosa… cosa vuole?” chiesi, la gola secca. Elias alzò lo sguardo, i suoi occhi ora spenti, quasi vitrei. "Non lo so, Aris. Ma sento... sento che mi sta tirando. C'è qualcosa lì fuori, al di là di ogni comprensione, e mi vuole. Lo sento nelle ossa." Nei giorni a seguire, Elias cominciò a comportarsi in modo sempre più erratico. Parlava da solo, mormorando frammenti incomprensibili di quella lingua antica. Disegnava simboli strani sui muri del laboratorio, diagrammi complessi che sembravano rappresentare mappe stellari distorte o entità tentacolari. La sua sanità mentale sembrava scivolare via, un pezzo alla volta, risucchiata da quel richiamo ultraterreno. Tentai di fargli capire che aveva bisogno di riposo, di aiuto medico. Ma lui mi ignorava, il suo sguardo fisso nell'infinito, come se vedesse cose che io non potevo nemmeno immaginare. "Non capisci, Aris," mi disse un pomeriggio, la voce improvvisamente chiara, ma con un'inquietante enfasi. "Non è una stella morta. Non è mai morta. È solo... addormentata. E ora si sta svegliando." Il suo corpo si indeboliva, ma la sua mente, per quanto distorta, sembrava acuita. I suoi calcoli divennero sempre più precisi, le sue intuizioni spaventosamente accurate. Era come se il segnale stesse sbloccando parti del suo cervello, o forse, installando qualcosa al suo interno. Una notte, il segnale aumentò di intensità. La sala di controllo vibrò leggermente, e i monitor lampeggiarono con una luce quasi accecante. Il suono divenne più forte, più profondo, un crescendo terrificante che sembrava provenire dalle viscere stesse del cosmo. Elias era in piedi, al centro della stanza, le braccia distese, gli occhi chiusi. La sua voce si alzò, non più un mormorio, ma un ruggito. Stava parlando nella lingua di R’lyeh, frasi intere, fluide, con una pronuncia perfetta che non aveva mai avuto prima. Le luci dell'osservatorio sfarfallarono, e il rumore degli strumenti divenne un cacofonico coro di lamenti elettronici. L'aria divenne fredda, carica di un'energia indescrivibile. Sentii una pressione nella testa, come se qualcosa stesse cercando di aprirmi la mente con la forza. Fu allora che un simbolo apparve, non su uno schermo, ma proiettato nell'aria stessa, una luminescenza verdastra e pulsante. Era un simbolo geometrico impossibile, che sembrava cambiare forma mentre lo si osservava, sfidando le leggi della geometria euclidea. Un simbolo che avevo visto solo nei testi proibiti, associato a un'entità di indicibile orrore. "Sta arrivando," sussurrò Elias, un sorriso strano, contorto, sul suo volto. Non era un sorriso di gioia, ma di una sorta di cupa accettazione. "Finalmente. Il richiamo è stato ascoltato." Corsi verso di lui, cercando di afferrarlo, di scuoterlo via da quell'incubo. Ma quando lo toccai, la sua pelle era gelida, e un'energia repulsiva mi respinse. I suoi occhi si aprirono. Erano neri, completamente neri, senza iride, senza pupilla. E non c'era più Elias Vance in quello sguardo. Solo un abisso. Il simbolo pulsava più intensamente, e dal centro di esso, una crepa cominciò ad aprirsi nell'aria. Una crepa nera come la pece, che sembrava assorbire la luce e il suono, creando un vuoto innaturale. Sentii l'odore di ozono e di qualcosa di molto più antico, qualcosa che sapeva di polvere stellare e di decadimento primordiale. Fui travolto da una forza invisibile, sbattuto contro un muro. La mia testa colpì violentemente la superficie fredda, e il mondo cominciò a girare. L'ultima cosa che vidi fu Elias, o ciò che ne restava, che si muoveva lentamente verso la crepa, come attirato da un'invisibile corrente. I suoi occhi neri erano fissi sull'apertura, e un'espressione di estasi macabra gli distorteva il volto. Poi, il buio. E il suono, persistente e terribile, della stella morta che continuava a chiamare. Un richiamo che non era solo per Elias, ma per qualcosa che ora, sembrava, era finalmente riuscito ad arrivare.